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Giuliano Delnevo, il nostro sergente Nicholas Brody. La guerra di persuasione persa dall’Occidente

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di DANIELE VENANZI – In Siria, Giuliano Delnevo è andato incontro alla morte che sognava ormai da cinque anni, dal giorno della sua conversione al credo di Allah. Si era unito ai ribelli jihadisti per combattere una di quelle guerre riconducibili al fenomeno che i media occidentali, accecati dall’atteggiamento politically correct e dalla percezione naif del mondo, avevano definito “primavera araba”, salvo poi doversi ricredere – per l’ennesima volta – sulla natura di un conflitto civile, in cui non è Assad l’unico volto del male.

In quello scontro interno al mondo arabo in cui l’America liberal – quella della guerra intelligente che finisce con le bombe dei droni su obiettivi civili – vuole ficcare il naso, quel ventitreenne genovese ha perso la vita per inseguire un ideale che l’Occidente del pensiero unico relativista non era in grado di dargli: l’ideale di abbracciare una causa che vada oltre il credo secondo cui siamo fatti di sola carne e che gli unici valori per cui valga la pena combattere siano il perbenismo e la fede nello Stato moderno ed etico, unico Dio e garante della felicità e di ogni scelta – pubblica e privata – dei suoi cittadini.

All’Occidente postmoderno e decostruttivista in cui l’unica regola che vige è pretendere che lo Stato – non la società civile, concetto tanto in voga nella forma quanto scomparso nell’essenza – sia debitore di tutto nei confronti di tutti e in cui abbiamo creduto possibile sostituire l’etica del lavoro, del sacrificio e del merito con quella della redistribuzione secondo il criterio politico della maggioranza, Giuliano Delnevo ha preferito opporre un’etica certa, ancor prima che forte.

All’antica libertà occidentale, ormai ridotta alla finzione della libertà di recarsi alle urne ogni quattro anni – pensatori come Jefferson, Tocqueville, Bastiat, Junger lo avevano capito bene – Giuliano ha preferito la sottomissione ad un profeta meno ipocrita, che non dibatte di filosofia nei salotti buoni.

È esattamente quanto accaduto al sergente dei marines Nicholas Brody, protagonista di Homeland, serie TV che sta letteralmente spopolando in America, basata sul soggetto di un’altra serie di culto, non a caso israeliana. Malgrado siano stati proprio i terroristi di Al Qaeda a tenere Brody prigioniero per otto anni in Iraq, è durante il lungo periodo di reclusione in terra islamica – tra sevizie e torture – che il marine si lascia convincere a convertirsi alla fede maomettana dai suoi aguzzini, che lo rilasciano per farlo tornare in patria da eroe, ma con intenzioni terroristiche.

La vicenda del giovane sunnita genovese, così come quella del sergente Nicholas Brody o – per tornare a vicende reali – delle centinaia di occidentali convertiti che negli ultimi dieci sono partiti per combattere la Jihad, deve servire da monito contro qualsiasi ingenuità e lettura di certi fenomeni con le nostre lenti, come se il mondo intero fosse conformabile ai canoni occidentali. Il mondo arabo non è democratico, non è tollerante, non è aperto, non è liberale e, soprattutto, non è posto per rivoluzionari da salotto e giovanotti antisemiti con il cuore a sinistra, il portafoglio a destra e la kefiah sartoriale al collo.

Quello in atto contro la società aperta non è uno scontro bellico, ma una guerra di persuasione in cui il nemico da cui guardarsi per primi è soprattutto quello endogeno, autoprodotto da un Occidente allo sbando. Roma e Atene – o Londra e Washington, per essere contemporanei – si stanno distruggendo da sole. A distanza di più di 1500 anni, la causa del declino dell’Impero Romano d’Occidente è più che mai la crisi dei costumi e di un codice etico, non la venuta dei barbari.


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